Qualsiasi attività che coinvolga due o più persone può essere vista come un’interazione, più o meno complessa.
Siccome non è possibile mantenere un’interazione in uno stato di neutralità costante, l’interazione stessa genera uno scambio di azioni, un dare e un ricevere. Non è possibile entrare in contatto con qualcuno senza che questa interazione avvenga, senza generare questo scambio.
Che si tratti della piccola cerchia delle relazioni familiari o tra conoscenti o che si guardi alla società, facciamo tutti esperienza della fragilità delle relazioni. Sperimentiamo tutti direttamente le conseguenze delle asimmetrie. Sappiamo, o comunque intuiamo, che cosa significhi dare o ricevere troppo o troppo poco.
Avviene lo stesso nella pratica delle discipline marziali. Quando, nella coppia, succede che uno dia troppo e l’altro riceva troppo poco, la tecnica appare violenta, a strappo.
Viceversa, quando uno dà troppo poco e l’altro assorbe eccessivamente, la tecnica appare vuota, falsata, boicottata.
Ed è esperienza comune che, in queste situazioni, la frustrazione di entrambi i partner porti a giudizi sommari. Generalmente è sempre “colpa dell’altro” o, quantomeno, il compagno di pratica è poco meno dell’anello mancante tra l’immondizia e il protozoo.
La buona notizia è che queste sono esattamente le condizioni in cui la pratica costante di una disciplina marziale aiuta l’individuo a essere consapevole della qualità delle relazioni in cui agisce. Una consapevolezza che gli consente non solo di porsi di fronte a uno specchio per comprendere le proprie attitudini ma anche e soprattutto di modificarle.
Le discipline marziali sono un luogo di paradossi. Nascono dall’esigenza di generare il massimo dei disequilibri (ledere definitivamente l’avversario su un campo di battaglia) ma vivono per lo scopo di restituire il più stabile degli equilibri a chi le pratica.
Si può allenare quindi questo equilibrio? Possiamo allenare la capacità di stare dentro le relazioni in un modo più equilibrato?
Assolutamente sì: la pratica consente di spostare il focus dal concetto di “dare/ricevere” all’esperienza del donare e del donare senza riserve (perdonare). Vivere ogni scambio tecnico con la costante attenzione all’ascolto di sé e dell’altro, permette di comprendere che quello che facciamo è imparare a offrire ciò che siamo, al meglio di ciò che possiamo (donare) e di accoglierlo senza riserve, pronti a invertire a nostra volta il ruolo (perdonare).
Non è un caso che, al netto di oggettive limitazioni biomeccaniche, la pratica faccia emergere blocchi fisici, asimmetrie, irrigidimenti… Lì è dove la nostra capacità di donare e perdonare incontra i suoi limiti ed è esattamente lavorando su tali blocchi, per mezzo del linguaggio del programma tecnico, che possiamo riequilibrare la nostra capacità di stare dentro le relazioni.
Tutto ciò non può e non deve avere il gusto sdolcinato di una pseudo religiosità moraleggiante. A volte la spiritualità -che pure è una componente imprescindibile dell’esperienza umana- può nascondere una scorciatoia per non vedere (e non elaborare) i limiti personali.
Piuttosto, realizzare la pratica anche come una palestra in cui esercitare l’arte del donare e la virtù del perdonare risponde a un imperativo etico che parla alla nostra parte più profonda e che dunque riguarda tutti.
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